La parola di questo frutto nelle diverse lingue si rispecchia la dolcezza e l’asprigno della pronuncia. Cerasa presente in diversi dialetti italiani, così come quello portoghese (cereja), francese (cerise), spagnolo (cereza), rumeno (cireş) e inglese (cherry), ma tutti derivano dalla stessa fonte il greco κέρασος (kérasos) e da qui dal nome della città di Cerasunte (o migliore Giresum), nel Ponto (l’attuale Turchia) da cui, secondo Plinio il Vecchio, furono importati a Roma nel 72 a.C. da Lucio Licinio i primi alberi di ciliegie.
Il frutto può nascere da due diverse specie botaniche. Da una parte il ciliegio dolce (cosiddetto Prunus avium), che produce le ciliegie dal gusto pieno dolce che arrotonda il palato e addolcisce la lingua con pastosità fresche e che troviamo sui banchi dei mercati e gustiamo fresche bagnate solo dall’acqua che le hanno lavate. Dall’altra il ciliegio acido (Prunus cerasus) che produce amarene, visciole o marasche, genericamente definite come ciliegie acide che hanno un colore intenso di rosso profondo, ma il loro sapore le distingue dalle prime perché la bocca può scostarle dal palato ma poi lascia un sapore prolungato narrativo di misture antiche e di composte magiche.
Il colore di questo frutto può variare dal giallo chiaro al rosso quasi nero sembra così che la tavolozza del rosso si tinge di riflessi presi dal giallo cadmio al rosso castagno e scarlatto.
Era il mattino del pittore che normalmente preparava la sua tavolozza prima di aprire le tende del suo studio e già la pastosità del colore a olio era lì sul legno imbrattato di giallo e di olio di lino.
Il rosso cremisi era steso come marmellata che luccicava sul legno, ma la tela era ancora vergine di quel biancore, dove solo il fondo di gesso era stato preparato. Lasciava la terra che si rigenerasse e lasciava che il vento muovesse le foglie degli alberi fuori dal suo studio muovessero il cielo; era rimasto solo a pensare a quelle nuove tele a quei freschi lenzuoli tirati sugli infissi di legno, erano grandi occupavano tutto lo studio aveva dovuto abbattere i muri per stendere quell’infinita tela in cui avrebbe voluto avvolgersi dentro.
Quel mattino le fronde degli alberi di ciliegio smuovevano le finestre le sbattevano sul muro di casa e il sole con prepotenza entrava. Il calore era ora la sua coperta e l’impasto si stava preparando forte denso dal giallo al rosso ora era tutto deciso bastava gettarlo sulla tela, bastava lasciarlo andare doveva, libero, lasciare andare il corpo e gettarsi dentro la rotondità delle sfere di frutta che giravano tra le sue dita nella ciotola vicino alla finestra.
Restava lì nel ricordo e nell’azione, ma quando la mano con energia prese alcune ciliegie tra le mani, sentiva la sottigliezza del peduncolo cadere tra le dita e la rotondità depositarsi sul palmo allora si riempì la bocca di dolcezza sugosa e il corpo si lasciò andare sulla tela e scorrendo come ininterrotte folate di foglie le pennellate stesero la forma infinità finché usci dalla tela sono allora riscoprì di amaranto le pareti dello studio che s’ingiallirono di cadmio al tramonto della giornata.